Cuore di seta

Una cosa, però, è certa: è nel momento in cui ho lasciato la Cina, a undici anni, che nella seta del mio cuore si è aperto uno strappo. Uno strappo che si sarebbe a poco a poco trasformato in un occhio nuovo, con cui guardare, più dolcemente, al fiume della mia vita.

Marzo 1990, a undici anni Shi Yang Shi vola verso l’Italia con la madre: una fantastica avventura. L’arrivo a Francoforte e il viaggio in treno sono deludenti: il ragazzo trova tutto diverso da come l’aveva immaginato. E la realtà incombe ancora più spietata nei primi mesi a Milano, dove Yang e la madre dormono su una brandina della cucina dello zio che li ospita. A scuola non và meglio: i primi mesi sono difficili , alle prese con una lingua di cui non conosce nemmeno una parola ed essendo l’ultimo trimestre Yang viene bocciato. Tutto nuovo e tutto difficile, mentre lo strappo nel cuore di seta si amplia e le domande senza risposta non trovano nemmeno una logica a quanto sta accadendo. Giorni che diventano mesi, mesi che sono anni di sacrifici, per conquistare una camera che non sia una cucina, per orientarsi in un mondo di laowai, stranieri. E lo strappo non si ricuce, si amplia in una sensazione di perenne equilibrio, scontro e confronto tra la vecchia vita in Cina e la nuova in Yìdàlì, tra vecchie e nuove abitudini, tra la tradizione e la famiglia e il desiderio di affermare se stesso, realizzando i suoi sogni. Yang nato in Cina nel 1979, in questo romanzo biografico racconta le ragioni che hanno spinto i suoi genitori a lasciare la Cina, illusi da un ideale benessere che non hanno mai raggiunto – e che paradossalmente avevano in patria ‒, convinti erroneamente di poter conservare le proprie professioni. Le sofferenze portate dalla Rivoluzione culturale che ha avuto inizio nel 1966 e per dieci anni ha ferito il Paese, inclusa la famiglia materna, hanno condizionato la madre e determinato la volontà di conquistare maggiore libertà e diritti altrove, come tanti, come tutti.
Una storia che sa essere amara, ma anche divertente e piena di speranza.

Ma in Cina c’è un detto: yijin hùanxiang, quando lasci il tuo villaggio per emigrare, ci ritorni solo con l’abito di seta. In altre parole: se non ce l’hai fatta, ti conviene restare dove te ne sei andato. Finisci incastrato in un meccanismo. Avrei scoperto, guardando in TV Raffaella Carrà, che anche agli italiani emigrati in Argentina era accaduto lo stesso. Alcuni erano rimasti lì pure senza avere fatto fortuna.