Le rondini di Montecassino

Del resto non era facile trovare un nome per i ragazzi della Compagnia D che venivano dai luoghi più lontani e disparati: da Wellington o da posti sperduti della South Island, persino dalle isole del Pacifico. Insomma, nella D c’era dentro un pò di tutto: meno vincoli di sangue, più gente che si era arruolata per le ragioni più diverse – per bisogno, per spirito di avventura, perché nella vita non sapeva cosa fare, perché odiava un genitore, persino perché la ragazza corteggiata si era fidanzata con un altro, non sto scherzando. Cosa credi, che quando uno a vent’anni parte soldato, sa quel che sta facendo?

Montecassino 1944, per quattro mesi gli alleati tentano di sfondare le linee tedesche. Su quel fronte sono impegnati americani e inglesi insieme a indiani, nepalesi, magrebini, polacchi e un battaglione di Maori provenienti dalla Nuova Zelanda e un migliaio di ebrei. Tra le due linee nemiche ci sono i civili, uomini e donne che non hanno indossato una divisa e che continuano comunque a combattere, ogni giorni in modi diversi. e sotto ogni divisa al fronte si celano giovani ragazzi, con una vita vissuta altrove, mossi dall’idealismo e dall’incoscienza. Helena Janeeck ripercorre alcune loro storie attraverso lo sguardo e i ricordi dei nipoti di quegli uomini. Partendo da un taxi a Milano, in un giorno qualunque, conosciamo John Wilkins, sergente texano, Rapata Sullivan nipote di un veterano maori, Edoardo e Anand due giovani romani che vanno a Cassino mossi da un sentimento di curiosità e avventura. Nelle pagine le storie si incrociano, come quella di Irka fuggita dal ghetto di Varsavia per finire in Siberia, come il soldato Milek, un reduce ebreo polacco morto a Milano senza riuscire mai a raccontare un parole di quegli anni di orrore e coraggio. Un filo rosso si dipana tra le pagine legando le persone alla storia e alla geografia di un’abbazia a Montecassino nel 1944.
Una narrazione scorrevole, ben costruita tra passato e presente che dimostra un accurato lavoro di ricerca da parte dell’autrice sugli avvenimenti. Un romanzo intenso dove la storia personale dell’autrice e della sua famiglia si intreccia alle storie e ai giovani impegnati su quel fronte. Una lettura necessaria, per comprendere e non dimenticare.

Poi certo, fra un campo nazista per lavoratori coatti e un campo di concentramento con detenuti in gran parte ebrei, fra un campo sovietico a regime attenuato o uno a settentrione del circolo polare, esistevano differenze misurabili sulla scala quantitativa di quanti vi sono morti, che è un criterio inequivocabile. Ma tutti erano luoghi dove non c’era più nient’altro oltre il lager. Un mondo dove eri imprigionato, sorvegliato, costretto a lavorare come uno schiavo, soggiogato dalla fame come uno schiavo. Un mondo a parte. Dove la distruzione spirituale procedeva insieme a gni giorno in più che vi passavi e la tua morte fisica, se non era un obiettivo, rappresentava un dato messo in conto come una certa percentuale di usura dei macchinari. Lager.

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