Una terra chiamata Alentejo

La grande e decisiva arma è l’ignoranza. E’ bene, diceva Sigisberto alla cena per il suo compleanno, che loro non sappiano nulla, né leggere né scrivere, né far di conto né pensare, che credano e accettino che il mondo non si può cambiare, che questo mondo è l’unico possibile, così com’è, che solo dopo morti ci sarà il paradiso, padre Agamedes ce lo può spiegare meglio, e che solo il lavoro dà dignità e quattrini, ma non devono pensare che io guadagni più di loro, la terra è mia, quando arriva il giorno di pagare imposte e contributi non vado mica a chiederli a loro i soldi in prestito, del resto è sempre stato così, e lo sarà, se non ci fossi io a dargli lavoro, chi glielo darebbe, io e loro, io sono la terra, loro sono il lavoro, quello che sarà bene per me, per loro è bene, è stato Dio a volere così le cose.

Nella regione portoghese dell’Alentejo la grande Storia è legata alle storie di uomini, donne e famiglie: generazioni di umili braccianti, vittime di una vita di prevaricazioni e soprusi. I Mau – Tempo sono una famiglia di contadini, nata da un’antica violenza su una giovane ragazza. I Mau – Tempo hanno da allora, a generazioni alterne, gli occhi azzurri e continuano a essere sfruttati, oggi come allora. Vite di fame, di braccia e gambe doloranti, di bambini che iniziano a lavorare fin da piccoli, di donne che si curvano nei campi. Quattro generazioni di vinti, di uomini e donne che non riescono a vedere oltre l’orizzonte dei campi, accecati dalla fede e dalle minacce di padre Agamedes, schiavi a tutti gli effetti dell’economia latifondista di questa regione del Portogallo.
Un racconto corale, di un’intera classe sociale, che solo nell’ultima generazione intravede la possibilità di un riscatto: i primi scioperi e i primi sindacati sono l’opportunità che aspettavano le quattro generazioni di Mau-Tempo che si consumano con João e suo figlio Antonio che vivono sulla propria pelle le rivendicazioni del bracciantato, ma anche le meschinità di una insulsa guerra tra poveri: impotenti ed inconsapevoli, della brutalità e della cattiveria umana.
La storia dei Mau-Tempo è la storia del Portogallo, soprattutto la storia di quel Portogallo salazarista “orgogliosamente solo”, posto ai margini di un’Europa che cresce, infettato da una violenza interna inaudita e da una povertà ancora più tragica. Gli echi della guerra, della perdita delle colonie, del franchismo e della guerra civile spagnola restano su uno sfondo sfuocato che all’interno del Paese però si traduce in uno spietato, sempre più crescente ed ossessivo processo di sradicamento del germe comunista e nel convincimento, inculcato dalle prediche dei preti, che la condizione dei contadini quella è e quella resterà.. Saramago ci racconta tutto come se ci avesse invitati a bere un caffè davanti al camino, come se quelle storie gli appartenessero e commentandole le farcisce di digressioni come fanno le comari quando raccontano un fatto comodamente sedute sull’uscio di casa senza risparmiarci la drammaticità degli eventi. Leggerlo è come tenere tra le dita migliaia di fili di un’ intricata matassa. Tra le pagine ci invischiamo in righe di aspra denuncia per la Chiesa che inganna i poveri, per il potere che semina violenza cieca, per il padronato che schiaccia sotto il tacco della propria ricchezza il lavoratore.  La storia di una famiglia diventa in realtà la cronaca del bracciantato rurale portoghese partecipe di una miseria condivisa. 
Un romanzo potente.

Sbarcheremo, dunque al Cais do Sodré e diremo, stupiti, Allora questa è Lisbona, che grande città, e il mare, guarda il mare, quanta acqua e poi risaliremo per questa strada con l’arco, è Rua Augusta, quanto movimento, e noi, che non siamo pratici di questi marciapiedi, tutto il tempo a scivolare su quest’accidenti di chiodi e a tirarci a vicenda per paura dei tram, ed eccovi tutt’e due lunghi e distesi, un divertimento per gli abitanti di Lisbona, Ehi burino, Ehi Manel. E guarda l’Avenida de Libertade, perché mai ci sarà quel palo piantato lì in mezzo, ma sono i restauradores, ah, non lo sapevo, e in gran segreto fra me e me, io dico, E continuo a non saperlo, la vergogna dell’ignoranza è la più penosa da confessare, tuttavia bando al cuore…